« Non fermarti! » incalzò, altresì, la donna, scuotendo appena il capo e scandendo quelle parole a denti stretti, in un’evidente reazione di pena in conseguenza a quanto allor provato « Il dolore non è importante... e le ferite si rimargineranno... » insistette, storcendo le labbra verso il basso.
Tutto quello che stava venendo loro richiesto di fare non avrebbe potuto ovviare ad attorcigliare le budella di Be’Wahr, il quale non avrebbe mai voluto imporre simile pena a colei che, in teoria, stavano lì soccorrendo. Ciò non di meno, innanzi all’insistenza di lei, e all’evidenza di quanto tale avesse a dover essere inteso il suo desiderio, egli si fece forza e, in netto contrasto a ogni proprio principio, levò a sua volta il proprio coltellaccio soltanto per farlo ricadere con decisione sul di lei polso sinistro, sulla parte inferiore dello stesso, al di sotto del chiodo, per avere, quindi, a tagliare la carne e a infrangere l’osso per così come esattamente da lei domandato.
« Che Lohr mi perdoni... » sussurrò trattenendo un moto di disgusto a confronto con il sangue che allor ebbe a esplodere caldo da quella ferita, riversandosi su di lui simile a pioggia rossa.
Le grida della donna, quindi, ebbero ancora una volta a risuonare alte attraverso i corridoi della fortezza, in termini che, paradossalmente, avrebbero avuto a doversi considerare per loro utili, onde ovviare all’eventualità di attrarre spiacevole attenzione nel merito del perché di un altrimenti improvviso e inatteso silenzio da parte sua. E se il dolore, sotto molteplici punti di vista, poté considerarsi persino più marcato rispetto al precedente, nella violenza che M’Eu e Be’Wahr ebbero a dover rivolgere in contrasto ai suoi arti, tale dolore avrebbe avuto a dover essere inteso, comunque, qual una promessa di libertà, e una promessa di libertà innanzi alla quale ella non avrebbe potuto negarsi intima occasione di gioia. Una gioia che nulla ebbe a cancellare o a ridurre rispetto alla pena impostale, ma che, certamente, non avrebbe potuto che spingerla ad accettare con maggior serenità tutto ciò in luogo alla precedente tortura, e a quella tortura che non l’avrebbe condotta da alcuna parte, se non ad altra tortura.
Il lavoro da macellai che fu così richiesto ai due compagni d’arme fu, forse, uno dei peggiori della loro vita. Sebbene entrambi guerrieri, sebbene entrambi veterani di numerose battaglie e guerre, diverso avrebbe avuto a doversi riconoscere quanto lì compiuto rispetto a quanto mai operato in passato. Là dove, infatti, i loro colpi avevano sovente dispensato dolore e morte, alcuno fra gli stessi avrebbe avuto a doversi fraintendere qual rivolto a prolungare l’agonia della propria controparte, puntando, anzi, a definire nel minor numero di passaggi la sua fine, il suo incontro con i propri dei. Lì, al contrario, stava venendo loro domandato di agire in termini tali da quasi smembrare quella donna, imponendole uno strazio terrificante, senza, in ciò, in alcun modo, attentare esplicitamente alla sua esistenza. Non che, in effetti, quanto da loro compiuto non avrebbe avuto a doverla condurre presto alla fine, fosse anche e soltanto per l’immane quantitativo di sangue da lei perduto.
Fu estenuante, per tutti loro, tanto per i due uomini, quanto per la donna, giungere al termine. Ma quando alfine braccia e gambe furono liberate dai chiodi, ella fu libera di rotolarsi a terra con obbligate, nuove grida di dolore, e, ciò non di meno, ora, con una luce diversa nei propri occhi, e in quegli occhi improvvisamente tornati a mostrare, da parte sua, una qualche speranza verso l’indomani, e un indomani troppo a lungo negatole.
« ... grazie... » gemette quindi, in direzione dei due uomini, e di quegli uomini ai piedi dei quali, in ciò, si era ritrovata riversa, incapace, ovviamente, a rimettersi in piedi o, anche e soltanto, a carponi, nell’impossibilità per le sue estremità, in quel momento, di sorreggere il resto del suo corpo, a stento ancora attaccate agli arti « ... il mio nome è Siggia... e oggi ho contratto un debito incommensurabile verso entrambi. »
« Aspettiamo a cantare vittoria... Siggia. » suggerì quindi M’Eu, scuotendo appena il capo e subito piegandosi verso di lei, al fine di cercare di capire come avere a sollevarla da terra, malgrado la schiacciante sproporzione esistente fra loro « Fino a prova contraria, non siamo ancora fuori da questo luogo maledetto. Ed il rischio che qualcuno di loro ci possa trovare e vanificare, di conseguenza, quanto compiuto sinora, è terribilmente alto... » concluse, provando a farsi carico di lei nel prenderla da sotto il braccio destro e nel caricarla, in parte, sulle proprie spalle.
« Dobbiamo raggiungere quanto prima quella dannata sala e il suo quadro... » commentò Be’Wahr, cogliendo il senso dell’impegno del compare e avendo a imitarne l’operato, agendo sul fronte opposto e caricandosi parte del peso di lei a partire dal braccio sinistro.
« ... state parlando del quadro che collega all’altro mondo...? » domandò la donna, a confronto con quello scambio di parole fra i propri soccorritori « ... è da lì che venite...?! »
« Lo conosci...? Sai dove si trova...?! » domandò allora il biondo, rendendosi conto di non aver minimamente preso in considerazione quell’eventualità e, ciò non di meno, comprendendo che tale avesse a doversi riconoscere qual una positiva evoluzione di quell’azione di soccorso.
« ... lo conosco... tutti lo conosciamo. » confermò Siggia, scuotendo appena il capo a offrire un particolare diniego le ragioni del quale avrebbe avuto allor immediatamente a esplicitare « Ma non esiste più sin dalla morte di Desmair... »
Sconforto fu quello che esplose nel cuore di Be’Wahr e di M’Eu a quell’annuncio. Un annuncio, una notizia, atta a negare loro qualsivoglia speranza di fare ritorno alla propria realtà.
Non che tale rischio non fosse stato da loro preso in considerazione, in quello che erano perfettamente consapevoli doversi intendere qual un viaggio potenzialmente di sola andata. Ma dall’idea di un rischio, alla concretizzazione dello stesso come certezza, comunque, non avrebbe potuto che intercorrere la spiacevole negazione di ogni speranza: la speranza di poter tornare a casa, la speranza di riabbracciare i propri cari, la speranza, in effetti, persino di sopravvivere a tutto quello. Perché, dopotutto, nella situazione in cui allora erano, certa sarebbe stata la loro condanna a morte.
« ... ma voi come diamine siete arrivati qui...?! » esitò la figlia di Desmair, incerta a tal riguardo « ... davvero venite dall’altro mondo?!... » insistette, obiettivamente spiazzata da tale annuncio, e da quell’annuncio che avrebbe avuto palesemente a sconvolgere completamente ogni sua possibile idea di realtà.
« ... » si ammutolirono allora Be’Wahr e M’Eu, guardandosi negli occhi.
Che stupidi erano stati! Si erano concentrati così tanto su quel quadro, e quel quadro nel merito dell’esistenza del quale, in fondo, non avrebbero potuto vantare alcuna certezza, senza avere minimamente a rammentare tutti gli altri quadri, e gli altri quadri che, stando a Fath’Ma, dovevano esistere sparsi in quel mondo. In posizioni dubbie, certamente, in luoghi sconosciuti, probabilmente, e pur lì avrebbero ancora avuto a dover esistere, mirabili porte ricollegate al loro mondo che sol avrebbero avuto ad attendere d’essere scoperte.
« E’ folle credere di potercela fare...?! » domandò Be’Wahr verso M’Eu, aggrottando appena la fronte, certo di quanto, in quel momento, il loro pensiero avesse a doversi intendere proiettato verso la stessa, identica, linea d’azione.
« Se sia folle non lo so... ma se lo dovesse essere, sarei ben felice di dichiararmi pazzo. » sancì per tutta replica il figlio di Ebano, ben disposto a puntare ogni cosa su quella scommessa, qual dimentica alternativa a un fato altrimenti già segnato... e per nulla positivo.
Nessun commento:
Posta un commento