11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 4 marzo 2009

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S
plendente, fulgido, ineffabile nell’alto dei cieli, così lontano dalla terra e da ogni dissidio dei comuni mortali, così vicino agli dei ed alla loro assoluta perfezione, in quella mattina di fine autunno, nel proprio movimento continuo, ciclico, eterno, nell’inarrestabile passione che fin dall’origine dei tempi lo aveva animato e caratterizzato e, probabilmente, per sempre avrebbe continuato a farlo, il sole si offrì ancora una volta agli uomini ed alle donne di ogni continente, regno, provincia o città, quale spinto, spronato dal desiderio di ricordare loro l’umana natura che li avrebbe dovuti far considerare tutti eguali al proprio prossimo. Nel cuore dei membri della razza umana, purtroppo, estremamente facile da sempre, e per sempre, sarebbe stata l’illusione di potersi elevarsi gli uni al di sopra degli altri, assurgendo ad un ruolo, ad un’importanza superiore in sola virtù di una propria caratteristica fisica, reale o presunta, o del sangue nelle proprie vene, creando per esso tanto stupide quanto vane divisioni interne, alle quali impossibile sarebbe stato trovare giustificazioni, dimostrare un qualsivoglia raziocinio, neppure cercando un confronto con il regno animale, all’interno delle quali simili emarginazioni avrebbero potuto trovare eventuale ragione in un principio di territorialità. Ma al di là della ricchezza o del nome, anche coloro che si fossero creduti, nella propria superbia ed arroganza, più potenti fra tutti i mortali, non avrebbero potuto evitare di essere posti su un medesimo piano, sotto allo sguardo del sole che, per chiunque, avrebbe continuano a sorgere ad ogni alba ed a scomparire ad ogni tramonto, riscaldando anche i corpi più freddi, illuminando anche gli angoli più bui. Ma nonostante il cielo ed i suoi astri, maggiori e minori, si ponessero sopra ad ogni regno, ad ogni popolo, con il proprio implicito messaggio di uguaglianza per tutti, sulla superficie del pianeta l’umanità proseguiva giorno dopo giorno prigioniera di quei propri limiti psicologici, emotivi, imperterrita nelle proprie scaramucce, così minimali in confronto all’eternità eppure assurdamente catastrofiche nella quotidianità.
Conflitti e guerre si proponevano, lungo determinati confini, da tempi tanto remoti da aver fatto persino dimenticare ai propri abitanti il ricordo di una realtà priva di esse, di una possibilità di pace, in un concetto diventato più filosofico che concreto, un utopia alla quale non poter credere, un sogno nel quale pericoloso sarebbe stato smarrirsi. Y’Shalf e Kofreya, due regni appartenenti all’estremità sud-occidentale del continente di Qahr, si sarebbero potuti concedere, in una simile analisi, quali perfetti esempi della stupidità umana, dell’innaturale ricerca di autodistruzione propria solo di tale categoria di creature mortali. Senza una ragione concreta, senza una reale esigenza alla base di tale scontro, le due nazioni infatti si fronteggiavano da generazioni, in una guerra che forse mai avrebbe potuto trovare una concreta soluzione dove, invero, l’ostilità perpetua, la guerra eterna e mortale, non sarebbe mai potuta essere comunque evitata nella ricerca di una possibilità di sopravvivenza, di una speranza di sussistenza per i due contendenti.
In conseguenza a troppi anni di battaglie, ad un eccessivo impegno militare, entrambe le nazioni avevano fatto ormai della loro stessa condanna la principale attività economica, il primo e necessario movente nel quale impiegare la propria forza lavoro e grazie la quale retribuire la stessa: dove intere generazioni erano ormai nate e cresciute conoscendo unicamente simile realtà, tale condizione, quale futuro sarebbe potuto essere presente nei loro pensieri, nella loro vita, nell’esclusione della guerra stessa? In quali attività giovani uomini, e spesso anche donne, attualmente impiegati quali soldati regolari o mercenari avrebbero potuto ritrovare di che nutrirsi? Mercanti, fabbri, carpentieri, ed addirittura allevatori, tutti coloro che proprio nella guerra e nelle risorse assorbite dalla stessa incentravano la propria attività, come avrebbero potuto proseguire in un clima di pace? Una situazione, per questo, probabilmente ormai irrisolvibile se non attraverso l’annientamento reciproco delle parti in causa.
In un tale dramma, comunque, un aspetto da commedia sarebbe risultato evidente a chiunque avesse osservato con sguardo obiettivo come i due acerrimi nemici si proponessero, incredibilmente, del tutto simili fra loro, non in quanto semplici appartenenti all’umanità, ma in quanto caratterizzati da medesime situazioni, da simili problemi ed, ancor più, da una cultura, una tradizione, una religione pressoché identica. Dove la lingua scritta, nella forma delle parole e nei caratteri utilizzati, in Y’Shalf e in Kofreya si poneva apparentemente diversa, il suo uso quotidiano, nel comune parlato, rivelava come fossero solo lievi differenze di accento e di slang a dividere degli stessi. In ciò, pertanto, il dio del fuoco, della creazione e della distruzione, ad oriente veniva indicato con il nome di Gau’Rol mentre ad occidente con quello di Gorl. O, ancora, il dio del mare, impietoso signore delle distese oceaniche e delle sue maree, a ponente trovava il nome di Tarth, cogliendo in effetti la denominazione tranitha di tale divinità, mentre a levante assumeva quello di Ta’Harar. E, poi, l’ultimo mese della stagione autunnale in Y’Shalf era nominato come T’Noph, in contrapposizione a Kofreya dove esso era conosciuto quale Tynov. Incompatibilità praticamente inesistenti, differenze del tutto irrilevanti, ma che pur erano vissute con rabbia priva d’eguali, alimentando la situazione purtroppo spiacevolmente nota su entrambi i fronti.
Volendo escludere le persone, la cultura, le tradizioni, la lingua, ossia tutti quei particolari che li avrebbero resi quanto meno fratelli se non proprio gemelli, i territori dei due regni non si concedevano effettivamente quali perfettamente equivalenti. Probabilmente proprio in questo si sarebbe forse potuta individuare un’arcaica ragione della diatriba, uno sprone iniziale al conflitto successivamente dimenticato nel corso di decenni di aspra guerra. Y’Shalf, ad oriente rispetto al proprio avversario, godeva infatti di confini più vasti di quelli kofreyoti, non ritrovandosi segregata nell’abbraccio dei monti Rou’Farth come il proprio vicino: in ciò, quindi, esso si era potuta sospingere per un’estensione quasi doppia tanto a settentrione quanto a levante, fino all’incontro con altre civiltà, con altri regni nei confronti i quali non avrebbe avuto convenienza a cercare scontro, rispettivamente Urashia e Mes’Era. E tanta disponibilità di terra, caratterizzata da vaste pianure, irrigata e resa fertile da molti fiumi, decorata da qualche pescoso lago ed appena segnata dalla presenza di poche zone collinari nel proprio interno, paradossalmente aveva offerto meno ragioni di urbanizzazione rispetto a Kofreya. Entro i confini y’shalfichi, in effetti, non si sarebbe potuta rilevare la medesima proliferazione di città presenti ad occidente, per quanto gli stili architettonici di quelle altresì erette fossero del tutto paralleli a quanto esistente al di là dei monti, nel rispetto di quella loro disconosciuta ma comune cultura. La spiegazione di simile reale diversità, forse, si sarebbe dovuta ricercare negli antichi rapporti commerciali con mercanti provenienti da nord, dai regni centrali del deserto, che da epoche remote avevano trovato proprio in Y’Shalf la meta conclusiva del lungo cammino, longitudinale quasi all’intero continente, percorso dalle proprie carovane. Nell’influenza di tali popolazioni nomadi, e godendo di un territorio superiore alle proprie esigenze, la maggior parte delle attività umane della nazione y’shalfica non si erano concentrate nelle proprie capitali, quanto diffuse per l’intera estensione delle province, lasciando ai centri urbani solo responsabilità di tipo amministrativo nonché, ovviamente, il compito di restare quali solidi riferimenti, oasi sicure ed accoglienti alle quali fare naturalmente ritorno durante le stagioni peggiori, a protezione dai climi più rigidi, dagli inverni più severi.
Y’Lohaf, fra le poche città e capitali y’shalfiche, si proponeva essere quella sita più ad occidente, più prossima al fronte del conflitto. E proprio nelle pianure sotto la sua giurisdizione, a conferma di simili usanze, di una tradizione fondamentalmente nomade almeno per coloro che si potevano permettere di esserlo in virtù del proprio ceto elevato o delle proprie professioni prive della necessità di una locazione stabile, in molti si stavano muovendo per il lento ritorno all’urbe, nel tragitto che, dopo tre stagioni lontani da edifici in solida pietra in favore della libertà concessa da più comode tende, li avrebbe ricondotti alla vita cittadina per i tre mesi invernali. Nonostante la maggior parte dei piccoli gruppi e dei grandi harem fossero ormai ad una distanza ridicola dalle mura della capitale, indolenti si proponevano ancora nel ritorno alla civiltà così come concepita ad occidente, incuranti persino del pericolo rappresentato dai guerriglieri che in quei territori cercavano di imporsi in contrasto ad ogni autorità, ad ogni rappresentante del potere sovrano per rivendicare i diritti dei ceti minori e la volontà di porre fine all’assurdità di una guerra durata troppo a lungo.
Da uno degli harem situati che da ormai tre settimane si era fermato a poche miglia dalla città di Y’Lohaf, una donna vestita secondo i canoni più integralisti di alcune religioni locali, si era allontanata in direzione del vicino fiume, trasportando con sé un pesante carico di vestiti da lavare, nell’assolvimento di uno dei propri compiti quotidiani. Purtroppo per lei, un gruppo di guerriglieri era in attesa, in quei dintorni, di una qualche malcapitata, quale ella stessa, su cui porre le proprie mani, a cui spingere le proprie mire.
Purtroppo per loro, quella donna, della quale solo due occhi azzurro ghiaccio emergevano da sotto pesanti vesti scure a coprirle l’intero corpo, non sarebbe stata la preda che desideravano.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Sai come si dice pace in ebreo?
Shalam

Sai come si dice pace in arabo?
Shalom

Meglio se non faccio altri commenti, perché non sarebbero attinenti al post... ç_ç
La stupidità umana è senza limiti, aveva ragione Einstein!

Sean MacMalcom ha detto...

Direi che hai afferrato PERFETTAMENTE il concetto! :D