Come molti altri campi della vita pubblica, la giustizia in Kofreya non risultava amministrata secondo modalità comuni ad ogni provincia stabilite dall’autorità sovrana centrale, dal monarca. Dall’alto della consapevolezza di non poter imporre eccessivamente la propria presenza su ogni terra all’interno del proprio dominio al fine di ridurre il malcontento presso le classi più forti, presso la nobiltà che altrimenti avrebbe potuto coalizzarsi e tramare per il trono, da secoli la casa reale della nazione aveva delegato anche quel settore alle amministrazioni locali, affidando in pratica ad ogni provincia, ad ogni territorio, ai piccoli signori, la possibilità di dirimere autonomamente le proprie questioni. L’unica limitazione in tutto ciò, ovviamente, sarebbe dovuto restare l’immancabile rispetto per l’autorità centrale, ma al di fuori di questo ogni feudatario avrebbe potuto fare il proprio tornaconto, decidendo in totale libertà della vita e della morte nei territori a sé concessi. Data una simile premessa, logicamente, anche i feudatari maggiori raramente accentravano tale potere nelle proprie mani per la stessa ragione del sovrano, nel temere complotti da parte dei vari lord presenti nei propri confini, finendo in tal modo per scaricare nuovamente ogni responsabilità ancora più in basso, in una gerarchia che, pertanto, si conformava in profili molto caotici ma evitava alla casa reale di dover temere qualsivoglia ribellione: invero chiunque avrebbe potuto attentare al governo kofreyota vedeva impegnate le proprie energie unicamente alla conservazione dei propri benefici in contrasto con i suoi simili.
Per merito di una simile liberale gestione del potere, e del potere giudiziario in particolare, in quella che sarebbe dovuta essere una sola grande nazione diverse erano le consuetudini adottate per condurre al rispetto della legge e dei suoi limiti: partendo da estremi come quello rappresentato da Kriarya, città del peccato, in cui alcun delitto avrebbe mai incontrato il proprio castigo, si sarebbe giunti fino a Kirsnya, sua antitesi, dove la maggior parte delle colpe, anche le più banali, trovavano una severa punizione. Entro i confini di quest’ultima provincia, rare erano infatti le incarcerazioni, trovando maggiore interesse nell’offrire una pena rapida e tempestiva, scelta più o meno casualmente fra una vasta gamma comprendente sia mutilazioni di ogni genere sia, più semplicemente, la morte. Le prigioni, così, risultavano essere quasi sempre prive di ospiti: laddove essi fossero stati tali, normalmente si sarebbero distinti così in due alternative contrapposte. Da un lato sarebbero stati i condannati a morte, in attesa del giorno fissato per la propria esecuzione laddove nessuno avrebbe osato privare allo sguardo pubblico tale spettacolo, utile dimostrazione della forza del governo locale e dei vari signori; dall’altro lato si sarebbero posti coloro che, per la più variegata serie di ragioni, avrebbero suscitato un qualche interesse di qualsivoglia genere nella persona giusta, o sbagliata che la si volesse considerare: a coloro rientranti in questa categoria, quindi, non sarebbe stata riservata una normale punizione, preferendo altresì la segregazione per un periodo più o meno lungo, in attesa di una decisione definitiva da parte del potente di turno coinvolto.
Lo stato di arresto in cui Midda era nuovamente stata condotta, come la volta precedente più per propria volontà che non per un effettiva vittoria delle guardie o dell’esercito su di ella, la vide al sorgere del nuovo sole essere guidata in catene fino al Palazzo di Giustizia di Kirsnya dagli uomini della sua scorta armata, i quali neppure all’interno delle mura di tale edificio, a tutti gli effetti già un carcere, giudicarono prudente liberarla dalle sue costrizioni di ferro ed acciaio, pur riducendo il proprio numero ad una dozzina per non risultare troppo impacciati nei movimenti all’interno degli stretti corridoi. La donna guerriero, così, fu accompagnata fino ad una piccola stanza con forti grate di ferro alle finestre, con un minimale arredamento consistente in un pesante tavolo in legno scuro ed una sedia, per essere lì rinchiusa sola ed ancora legata.
« Déjà vu… » sussurrò in un malinconico sorriso, osservando l’ambiente attorno a sé e trascinandosi, nel proprio pesante giogo, fino alla sedia, a cercare lì un po’ di riposo.
Fatta eccezione per il tentativo di dialogo provato dal tenente la notte precedente, la mercenaria non aveva rivolto parola alcuna ai propri guardiani fino a quel momento, rifiutando di rispondere a qualsiasi domanda diretta o indiretta le potesse essere stata posta. Quel prolungato silenzio, unito all’assenza di acqua e di liquidi, escludendo l’ultima zuppa mangiata a cena, le aveva lasciato la bocca tremendamente impastata, minore fra i mali in confronto all’ovvio indebolimento conseguenza di un primo principio di disidratazione. Nulla di diverso, del resto, si sarebbe mai attesa da parte dei propri carcerieri, trovando altresì l’offerta della ciotola di cibo della sera prima assolutamente a sproposito nelle modalità solitamente adottate da guardie e soldati al momento dell’arresto di un ricercato, soprattutto se giudicato pericoloso: evidentemente quell’infrazione ad un regolamento non scritto era stata un’azione intrapresa autonomamente dal tenente e solo a titolo di ringraziamento per ciò si era spinta a pronunciare verso di lui le poche parole offertegli.
Osservando con fredda serietà l’unica porta di ingresso a quella stanza, ella attese con pazienza il momento in cui un magistrato sarebbe giunto a stabilire del di lei destino, come di rito: nonostante la lieve debolezza in cui avevano sperato di indurla, ella cercò di mantenere la mente lucida ed il corpo sveglio, risentendo in ciò della limitazione alla propria libertà di movimento nell’appesantimento delle proprie membra e dei propri muscoli. Quando la soglia si aprì improvvisamente, tre soldati della di lei scorta avanzarono all’interno dello spazio ristretto per porsi a circondarla, situandosi in due ai suoi fianchi ed un terzo dietro la sua schiena: una precauzione, evidentemente, giudicata necessaria a salvaguardare la salute di chiunque avrebbe mosso i propri passi al loro seguito. Ma dove Midda già era in attesa del viso di un uomo, davanti a lei si offrì altresì quello di una donna, che la guardò con aria divertita.

« Sarnico?! » sussurrò con voce resa roca dalla mancanza di idratazione, non celando un evidente stupore nel trovare nella nuova giunta un evidente somiglianza con il giovane presente nei propri ricordi.
E la donna, conducendo la spada troppo pesante per lei fino davanti al proprio corpo, ponendola in verticale davanti alle lunghe gambe come un bastone da passeggio ed appoggiando in simil modo le mani sopra all’elsa, continuò a sorridere, osservandola a lungo prima di commentare semplicemente: « Mio fratello. »
3 commenti:
Oh oh oh!
La Sarnica!!
Sarà lieta della scomparsa del fratello, e desiderosa di usare per una missione Midda? O la vorrà semplicemente far soffrire a lungo, tanto per cambiare?
bella la descrizione del vestito, ma ammetto che senza l'immagine avrei avuto più difficoltà a visualizzarlo.
@Coubert: direi che il nuovo episodio risponde in maniera diretta ad ogni tua domanda! :D
@Archmage: le immaginette TekTek le utilizzo solo come scherzoso intrattenimento all'ingresso in gioco di nuovi personaggi. In effetti, però, quello che dovrebbe far fede è la descrizione testuale laddove i disegnini sono successivi alle stesse! :D
Grazie ancora per i tuoi commenti! :)
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