11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 28 maggio 2019

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Quando, all’alba di un nuovo giorno, l’accusatore Pitra Zafral ebbe a risvegliarsi entro i quieti confini del proprio appartamento, e di quell’appartamento in cui viveva solo, non avendo mai amato null’altro al di fuori della legge, e solo alla legge avendo votato la propria esistenza, egli ebbe a scoprirsi solo esattamente come avrebbe dovuto essere.
In una quieta contrazione addominale, egli si levò a sedere sul letto, si voltò, e posò i piedi a terra. Per un istante ebbe a osservarsi attorno e, poi, scalzo, si mosse in silenzio verso una delle due porte lì presenti, già dischiusa, e dischiusa, per la precisione, sul proprio bagno. Lì si spogliò, ed entrò nella doccia, aprendo l’acqua calda e obliando a ogni pensiero, a ogni sensazione, a ogni emozione sotto quel piacevole flusso.

Ella amava la sensazione di quel getto quasi violento che, infrangendosi contro la propria pelle, scivolava poi, a tratti lento, a tratti veloce, lungo le proprie forme. Era qualcosa che non aveva avuto alcuna occasione di sperimentare nella propria precedente vita, e, per quanto intrappolata all’interno del proprio stesso corpo, prigioniera di colei che l’aveva riportata in vita, non avrebbe potuto ovviare ad apprezzare tutto quello, godendolo quasi qual una fugace possibilità di sentirsi nuovamente se stessa, al di là di tutto quello che le stava accadendo. Metaforicamente, quell’acqua gettata con forza sulla sua pelle, sulla sua carne, in quello che quasi avrebbe avuto a potersi riconoscere qual una sorta di massaggio idroterapico, le concedeva l’illusione di potersi svestire di ogni menzogna, di ogni falsità, e di tornare a essere soltanto la donna che era, e che avrebbe dovuto essere se non fosse stata trasformata in quell’abominio.
Certo, nella propria vita passata, dell’inganno, della menzogna, del celarsi dietro mentite spoglie, ella aveva reso la propria professione, interpretando più vite, più persone e personalità rispetto a quanto non avrebbe potuto allor vantare di ricordare, e, forse, rispetto a quanto anche non avrebbe voluto poter ricordare. Perché quasi sempre ciò che ella aveva compiuto, nelle proprie altre identità, non era stato piacevole.
Forse in tal senso avrebbe avuto a doversi interpretare quanto le stava occorrendo in quel momento? Forse in tal senso avrebbe avuto a doversi intendere la propria attuale condizione? Qual una sorta di divina punizione per le proprie colpe passate, per tutto ciò che di sbagliato aveva compiuto dietro nomi diversi, dietro identità estranee alla propria, al punto tale, ora, da essere addirittura privata non soltanto della propria stessa identità, e, persino, del proprio volto, ma anche, e peggio ancora, della propria medesima volontà?!
Ricordava la propria colpa. La propria ultima colpa. Quel duplice tradimento. Quel tradimento mosso a discapito non di un’amica, ma addirittura di due, di due donne forti, di due donne meravigliose, fra loro paradossalmente così identiche e pur così diverse, così prossime e pur così distanti, al servizio di entrambe le quali si era ambiguamente posta, e la fiducia delle quali, al contempo, aveva quindi finito per tradire, nel paradosso stesso conseguente alla propria esistenza.
Ella ricordava la propria colpa. E, nella consapevolezza di quella colpa, l’ultima di molte altre e, pur, probabilmente, la peggiore fra tutte, e nella consapevolezza di quella colpa per espiare la quale si era spinta addirittura all’estremo sacrificio, ella non avrebbe potuto ovviare a rifiutare, tuttavia, qualunque possibilità di quieta accettazione del proprio presente qual un percorso di punizione per quanto compiuto. Perché se dietro a una colpa avrebbe avuto a potervi essere un riscatto, una redenzione, quanto ella stava lì compiendo, e stava lì compiendo non per propria volontà, ma quasi quanto mera spettatrice, non avrebbe potuto intendersi in alcun modo ricollegabile a redenzione, a riscatto. Non, quantomeno, nel momento in cui, a pagarne il prezzo, ancora una volta, avrebbe avuto a dover essere riconosciuta proprio la sua amata Midda Bontor.
Aveva amato Midda Bontor. E, per lei, ella aveva imparato anche ad amare Nissa Bontor. E, per entrambe, ella era poi morta, facendo scudo con il proprio stesso corpo alla violenza di un attacco rivolto dalla seconda a discapito della prima.
E poi…?
Poi il nulla. L’oblio. Almeno sino a quando, dietro la sua schiena, quelle ali da sempre tatuate sulle sue ramate carni non si erano dischiuse, e non si erano dischiuse diventando reali, in un mondo che di reale avrebbe potuto avere tutto e nulla. E in un mondo nel quale, ancora una volta, le era stata concessa l’opportunità di intervenire in soccorso della sua antica amica, di propri passati compagni di ventura, e di nuovi volti, i nomi dei quali aveva appena avuto possibilità di apprendere nella concitazione degli avvenimenti occorsi.
Ovviamente ella sapeva di essere morta. Era consapevole che nulla di tutto quello, per lei, avrebbe avuto a poter essere riconosciuto qual reale. Ed era consapevole del fatto che, nel momento in cui tutti avessero lasciato il tempo del sogno, così come quel luogo era stato ribattezzato da una versione giovanile della stessa Nissa, ella avrebbe dovuto cessare di esistere, ritornando all’oblio nel quale era precipitata dopo la morte, ritornando al nulla al quale avrebbe dovuto appartenere.
Ma qualcosa glielo aveva impedito. Qualcuno glielo aveva impedito. Qualcuno che, forse, ella aveva già conosciuto, o, forse, avrebbe avuto occasione di conoscere in un qualche futuro mai vissuto, difficile a dirsi, difficile a comprendersi in una realtà al di fuori di ogni altra realtà, in un tempo al di fuori di ogni altro tempo. Qualcuno che, allora, l’aveva nuovamente legata alla vita, l’aveva trascinata ancora una volta nel proprio piano di realtà, in un corpo che era il proprio, e che pur, al tempo stesso, non avrebbe avuto a dover essere riconosciuto qual il proprio. Perché il proprio corpo non avrebbe mai potuto modificare le proprie sembianze, non avrebbe mai potuto alterare le proprie forme e proporzioni, mutando in altezza, mutando in peso, e, persino, mutando nel proprio stesso genere sessuale.
Che cosa le avevano fatto…?
Perché, attraverso il vetro imperlato di piccole gocce d’acqua e il vapore generato dal calore proprio del getto di quella doccia, riflesso nello specchio dall’altra parte di quella stanza da bagno, ella non aveva la possibilità di ammirare le forme del proprio corpo, e di quel corpo di cui, obiettivamente, non avrebbe potuto ovviare ad andare fiera, nella bellezza, nella sublime bellezza che l’aveva da sempre contraddistinta, nella grazia e nella femminilità che gli dei le avevano concesso, e quella grazia e femminilità che, non lo avrebbe mai potuto negare, sovente si era dimostrata la sua arma più importante nella risoluzione dei propri conflitti, nella gestione dei propri incarichi mercenari? Perché allorché contemplare la sinuosa linea che, a partire dalle proprie spalle, avrebbe percorso i seni, la schiena, l’addome, i fianchi, sino a giungere ai sodi glutei e, di lì a ridiscendere alle lunghe e tornite gambe, il tutto racchiuso in quella vellutata pelle color della terra per poter avere la possibilità di baciare la quale qualunque uomo si sarebbe dannato l’anima, ella avrebbe dovuto osservare le forme nerborute di un tizio a lei pressoché sconosciuto, che, francamente, al di là di ogni giudizio di merito a riguardo dell’estetica del quale, non avrebbe mai potuto neppur apprezzare, ponendosi al di fuori di ogni propria preferenza, di ogni proprio gusto sessuale?
Maledette! Ella lo sapeva. Ne era perfettamente cosciente. E, tuttavia, al tempo stesso, non avrebbe potuto impedirlo, non avrebbe potuto ovviare all’evolversi di quegli eventi nei termini nei quali qualcun altro li stava definendo, a sicura distanza dagli stessi. Era consapevole del fatto che la stavano usando. Era consapevole del fatto che l’avevano trasformata in un’arma. E in un’arma che, entrambe, desideravano usare a discapito proprio della sua antica amica, proprio di quella donna che aveva amato, e per la salvezza della quale era arrivata a sacrificare la propria vita.
Ne era consapevole… ma non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Purtroppo non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo, intrappolata, qual si stava ponendo, nel proprio stesso corpo.

Conclusa la propria doccia, dal sapore proprio di un rito mattutino, l’accusatore Pitra Zafral chiuse l’acqua, allungò una mano verso un grande telo di morbida spugna bianca appeso poco distante, e lo portò al viso, per tamponare le gocce lì rimaste in aderenza alla sua pelle.
Una nuova giornata di lavoro stava per avere inizio… e, qualunque cosa lo avrebbe atteso, qualunque incarico l’omni-governo gli avrebbe allor riservato, egli era certo sarebbe stata una giornata meravigliosa.

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