11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 2 giugno 2019

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Australia.
Forse la prima tappa del mio viaggio ebbe a doversi considerare banale, nelle premesse proprie a quanto avvenne, ciò non di meno non potei che considerarla quantomeno obbligata, nella speranza di riuscire ad apprendere qualcosa di più nel merito del tempo del sogno rispetto a quanto qualche ricerca su Google non avrebbe potuto concedermi occasione di maturare confidenza con il quale. O rispetto a quanto un lungo peregrinare presso diversi professori detentori di cattedre di antropologia sparsi in tutta Italia non si era comunque dimostrato in grado di offrirmi, giacché, ovviamente tale ebbe a essere la mia prima scelta, in luogo a un viaggio in aereo decisamente costoso, oltre che terribilmente lungo, dall’altra parte della nostra cara e vecchia Terra.
Purtroppo, la cultura propria degli aborigeni australiani, una delle popolazioni più antiche e più brutalizzate della nostra Storia, si pone evidentemente troppo lontano dall’interesse comune, tale per cui, in verità, riuscire a ottenere qualcosa di più rispetto a una semplice infarinata generale, se mi si concedere il termine, senza mai scendere particolarmente nel dettaglio, ha da considerarsi un’impresa a dir poco improba. Ragione per la quale, non avendomi a dover porre freni inibitori a livello psicologico all’idea di viaggiare, non laddove il mio fine ultimo sarebbe stato quello proprio di attraversare i confini stessi del multiverso, il mio primo grande viaggio attraverso il mondo fu, a tutti gli effetti, un grande viaggio attraverso il mondo, sino, letteralmente, agli antipodi rispetto al mio caro e vecchio italico stivale.
E dopo quasi ventiquattro ore di viaggio, scali inclusi, per giungere dall’altra parte del pianeta, devo ammettere che ebbi a sentirmi non poco provata, in termini tali per cui, per un istante, assolutamente umana e comprensibile, credo, ebbe a doversi considerare una certa reazione di timore, e di timore all’idea, forse, di star compiendo un’idiozia colossale.
A riportarmi con i piedi per terra, comunque, ma non a negare quel senso di disorientato smarrimento tale da farmi domandare se non avessi sbagliato tutto nella mia scelta, furono i severi controlli degli agenti alla dogana, i quali mi fecero confermare ogni mio precedente pensiero di totale ed entusiastica adesione all’idea di un’Europa unita, per così come pur, in molti, negli ultimi anni, hanno iniziato a tentare di porre in dubbio. Non ho francamente idea se, all’epoca, anche i miei genitori dovettero subire degli interrogatori simili a quelli che mi vennero riservati, quando decisero di fare le proprie vacanze in Italia… ma credo, francamente, di no, o, in caso contrario, veramente miracolosa avrebbe avuto a doversi considerare la nascita mia e della mia gemella, laddove, obiettivamente, allorché incentivare la libera circolazione delle persone, una simile politica di terrorizzato controllo degli ingressi non può ovviare che ad alimentare un senso di rifiuto verso il prossimo, e un senso di rifiuto del prossimo verso determinate mete.
Quando, comunque, alfine ebbi a superare il terzo grado dell’agente doganale, quanto mi ritrovai a pregare nel profondo del mio cuore  fu di non dover avere a recarmi, nell’immediato futuro, in un qualche Paese ancor più severo nei proprio controlli e restrittivo nei propri parametri d’ingresso, benché, sinceramente, in quel particolare momento, in quel preciso frangente, difficile sarebbe stato per me riuscire a immaginare qualcosa di ancor più restrittivo rispetto a tutto quello.
Fu così che, fra il cambio di fuso orario, le ventiquattro ore di viaggio e i terrificanti controlli alla frontiera, il mio arrivo agli antipodi fu, per me, recepito con minore entusiasmo rispetto a quanto non avrei potuto inizialmente vantare. Anzi. Devo ammettere che, in effetti, non riuscii neppure a realizzare, nell’immediato, quanto allora stesse succedendo, dove fossi riuscita ad arrivare... non, quantomeno, sino a dopo una lunga notte di riposo. O, per meglio dire, a un lungo giorno di risposo, laddove, con buona pace di tutti i migliori consigli per contrastare gli effetti del jet lag, non tentai minimamente di restare sveglia ma, giunta nel bed & breakfast dove avevo prenotato, crollai a peso morto sul letto per non meno di una decina di ore, risvegliandomi, alfine, soltanto a notte inoltrata e lì, nella confusione propria del risveglio, perdendo qualche minuto allo scopo di domandarmi, in effetti, dove fossi finita.
Solo in quel momento, finalmente, ebbi a maturare il pensiero di essere giunta in Australia. E di essere giunta in Australia, particolare mai banale, in sola grazia alle mie gambe. A quelle due nuove, splendide gambe che, allora, voltandomi supina sul letto, non potei ovviare a sollevare verso il cielo, per avere ancora una volta occasione di rimirare animata da una gioia difficile da spiegare e, probabilmente, ancor più difficile da poter realmente comprendere.
Ineluttabile, infatti, nella vita quotidiana di chiunque, avrebbe avuto a doversi considerare avrebbe avuto dover essere desiderio e invidia per quanto non posseduto, ancor prima che gioia e gratitudine per quanto, altresì, in proprio possesso. Nessuno, fatta eccezione per coloro i quali vivono in zone di guerra, è solito svegliarsi al mattino ringraziando il Cielo per il dono della vita; nessuno, fatta eccezione per coloro che hanno rischiato di perdere una persona cara, è solito svegliarsi al mattino ringraziando il Cielo per la presenza di quella persona nella propria vita: tutti, abitualmente, senza malizia, senza una qualche reale colpa, diamo quasi per scontato ciò che abbiamo, e dedichiamo tutte le nostre attenzioni, tutti i nostri sforzi, soltanto a quanto non ci è dato di avere. E così, per carità, è sempre stato anche per me, che non ho da considerarmi né migliore, né peggiore rispetto a chiunque altro.
Ma, proprio in conseguenza a ciò, io non avrei mai potuto, allora, e non potrei mai, neppure in questo momento, smettere di guardare con ammirazione e senso di infinita gratitudine le mie gambe. E queste gambe che, per cinque lustri su sette, mi erano state negate, e il dono delle quali, in maniera del tutto imprevista e imprevedibile, alla fine mi era stato nuovamente concesso in grazia a qualcosa di più che miracoloso. Dopo aver trascorso più di due terzi della mia esistenza boccata su una sedia a rotelle, e impossibilitata, in ciò, a vivere quanto per chiunque altro potrebbe considerarsi banale, l’essere nuovamente in grado di muovermi in libertà, di camminare, di saltare, di correre, non avrebbe mai potuto perdere di significato nella mia quotidianità, non avrebbe mai potuto scemare nel proprio straordinario valore a confronto con il mio sguardo e il mio giudizio. E, in ciò, non avrei mai potuto, né mai potrei, iniziare una giornata portando lo sguardo alle mie gambe, e divertendomi a muoverle quasi una neonata a confronto con la scoperta del proprio stesso corpo, godendo pienamente e profondamente di tutto ciò, e di quanto, ciò, non avrebbe potuto ovviare a rappresentare per me.

« … Australia… » commentai fra me e me, quasi ad aiutarmi a maturare la consapevolezza di quanto tutto quello fosse vero, forse nel timore, sempre presente nel profondo del mio cuore, di avere a breve a dovermi risvegliare, e a dover scoprire quanto nulla di tutto quello avrebbe avuto a riconoscersi qual reale, quanto e piuttosto un lungo, e complicato, e crudele sogno, il termine del quale non avrebbe potuto ovviare a farmi uscire di testa… letteralmente.

Ma tutto quello non era un sogno. Ed io ero davvero lì. Ero davvero tornata proprietaria delle mie gambe, e delle mie gambe nella loro migliore forma possibile. E, soprattutto, ero lì in Australia.
E il mio essere lì in Australia non avrebbe avuto a dover essere frainteso qual evidenza di un qualche capriccio, quanto e piuttosto dimostrazione della mia determinata volontà di trovare un modo, un’occasione, per poter tornare ad accedere, ancora una volta, al tempo del sogno, e tornarvi ad accedere non in maniera passiva, non perché lì trascinata contro la mia volontà, quanto e piuttosto perché fermamente cosciente di ciò e di quanto, questa volta, tutto quello avrebbe potuto significare. Giacché se, in occasione della mia prima visita, e di quella mia visita più qual vittima degli eventi ancor prima che protagonista e interprete degli stessi, mi era stata concessa l’inconsapevole opportunità di riconquistare l’uso delle gambe, chiaro avrebbe avuto a doversi giudicare l’incredibile potenziale proprio di tale piano di realtà estraneo a ogni piano di realtà, di tale dimensione progenitrice di ogni altra dimensione, soprattutto allo scopo di potermi permettere di prevaricare i limiti stessi della mia realtà, della mia dimensione, e, in ciò, di raggiungere la mia gemella, ovunque ella potesse essere finita, in qualunque mondo, dell’infinità propria del multiverso, potesse essere stata condotta nel proprio peregrinare sulle ali della fenice.

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