11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 6 giugno 2019

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Fu così che, se anche quella sera Hugh e i suoi amici giunsero al pub, francamente, non me ne accorsi, né, parimenti, ne venni informata. E, comunque, alla fine non mi andò poi così male. Non dal momento che iniziai la mia cena, facente funzione di pranzo, con un’ottima zuppa di ostriche bollite, servite con vellutata di pesce e purea di acciughe, il tutto abbondantemente condito con succo di limone, e la proseguii con uno squisito piatto di carne di canguro alla griglia, con contorno di funghi saltati in padella, per poi concluderla con una pavlova alle fragole, sostanzialmente meringa ricoperta da panna e, nel mio caso, da fragole. Insomma… non potei proprio lamentarmi.
E se, al termine di quella serata utile fondamentalmente soltanto a nutrirmi, ma non ad altri scopi, per tornare al bed & breakfast avrei potuto anche riservarmi una passeggiata, forte della stanchezza accumulata in una giornata praticamente interminabile mi concessi l’occasione di un piccolo lusso, domandando al mio nuovo amico esperto in volti e nomi di volermi chiamare un taxi, non tanto per una qualche eventuale ragione di sfiducia nei riguardi dell’idea propria di una camminata di mezzanotte per una sicuramente appariscente turista straniera, quanto e piuttosto per semplice stanchezza fisica e mentale, in termini tali per cui, a malapena, fui in grado di riuscire a ricordare l’indirizzo al quale richiedere di essere accompagnata, dietro a quel velo sempre più denso che ormai obnubilava i miei pensieri…
… sì, ero decisamente stanca. E stanca al punto tale che, tornata nella mia camera, tutto ciò che potei fare fu lasciarmi ricadere sul letto, esattamente così come ero vestita, per lì crollare addormentata, prona e con il volto affondato nel cuscino, smarrendomi irrimediabilmente nei miei sogni per non meno di nove ore filate.

Forse qualcuno, a questo punto, potrebbe domandarsi, con fare curioso, qual genere di sogni avrebbe mai potuto caratterizzarmi all’epoca, in un momento tanto rivoluzionario per la mia stessa quotidianità. E, in effetti, tale domanda credo possa considerarsi quietamente legittima, e legittima nella misura in cui, in fondo, in quelle ultime settimane, in particolare, e in quegli ultimi mesi, se non anni, più in generale, la mia vita era stata rivoluzionata completamente, sin dall’ingresso in scena della prima Midda Bontor, quella che ebbe ad assumere il ruolo di mentore di mia sorella Maddie e che, successivamente, per sua mano ebbe a incontrare la morte, nel momento in cui il morbo cnidariano l’aveva trasformata in un mostro osceno, e in un mostro osceno al solo servizio di Anmel Mal Toise.
A dispetto, tuttavia, di quanto chiunque avrebbe potuto attendersi, i miei sogni, in quel periodo, non avrebbero avuto a doversi riconoscere particolarmente agitati. O, quantomeno, non in misura maggiore rispetto a quanto non avrebbero avuto a dover essere da sempre riconosciuti. E quella notte in particolare, forse complice anche la pinta di birra, ebbi occasione di dormire un lungo sonno costellato da sogni assolutamente inoffensivi e, anzi, a tratti persino piacevoli, nel prevedere la partecipazione di una coppia di tanto affascinanti, quanto sconosciuti, corteggiatori, impegnati in una sorta di competizione al solo scopo di conquistarsi le mie attenzioni. Attenzioni che, per la cronaca, avrei concesso indistintamente a entrambi anche in assenza di tanto impegno, e che pur, nell’occasione, non ebbi a elargire con tanta generosità, divertita dall’idea di quella cavalleresca disfida per la conquista della fanciulla… ossia per la mia conquista.
Banale? Forse.
Ma partendo dal fondamentale presupposto di quanto, mio malgrado, in più di sette lustri di vita, non avessi mai avuto occasione di sperimentare una relazione duratura, e una relazione in grado di superare, quantomeno, il primo appuntamento, nel confronto con il fondamentale disagio psicologico di coloro con i quali, nel corso degli anni, ho avuto occasione di tentare di uscire; sufficientemente comprensibile e giustificabile può essere considerato quanto, da parte mia, la lusinga propria di non uno, ma ben due bei ragazzoni interessati alla sottoscritta, non avrebbe potuto mancare di recare seco un certo fascino… e un fascino innanzi al quale non sarei riuscita a restare del tutto indifferente, neppure a livello onirico.
Quando, tuttavia, al mattino successivo ebbi occasione di risvegliarmi, e di scoprirmi ovviamente, e fortunatamente nella specifica situazione propria di quel frangente, sola nel mio letto, non potei mancare di rimproverarmi per essere stata così vanitosa, in quel sogno, da non essermi concessa maggiore occasione di divertimento con almeno uno dei miei due corteggiatori, in termini tali per cui, alla fine, tutto quel loro impegno, tutta quella loro devozione nei miei riguardi, non aveva avuto neppure la possibilità di concretizzarsi in un semplice bacio… che spreco!

In grazia alla lunga veglia del giorno precedente e al non meno esteso periodo di riposo proprio di quella notte, riuscii, alfine, a superare il devastante impatto del cambio di fuso orario con minore disagio rispetto a quanto non avrei mai potuto temere. E, complice la confidenza ormai maturata con l’ambiente proprio dell’università, con i suoi edifici e i suoi spazi, almeno nei limiti del mio interesse personale; quel mio terzo giorno australiano riuscì allora a proporsi qual il primo nel quale, finalmente, ebbi occasione di poter vantare un certo, e poi neppur così tardivo, acclimatamento alla nuovo mondo a me circostante, in termini tali da non apparire più qual una persona lì capitata per puro caso, qual pur avrei avuto a dovermi considerare, quanto e piuttosto qual qualcuno effettivamente consapevole di quanto stesse facendo e, soprattutto, di come farlo.
Quasi a compensare, quindi, l’assenza di un mio personale pregresso universitario, ebbi lì, agli antipodi rispetto a casa mia, a trascorrere una nuova e piena giornata rimbalzando fra un’aula e l’altra, alla ricerca della lezione giusta a cura del docente giusto. Ciò non di meno, per quanto un simile approccio avrebbe potuto, idealmente, portare i propri frutti, il confronto con la realtà ebbe a essere decisamente più impietoso di rispetto a quanto non avrei potuto avere fiducia fosse, rifiutandomi, ancora una volta, le informazioni da me desiderate e, in tal senso, semplicemente ponendomi allora a confronto soltanto con innumerevoli informazioni sicuramente interessati da un punto di vista di cultura personale, e, ciò non di meno, totalmente inutili nel confronto con quanto, allora, avrebbe avuto a dover essere riconosciuto mio interesse apprendere.
Certamente, e ne ero consapevole, avrei anche potuto pensare di mutare il mio approccio, e di mutarlo in direzione utile, allora, a tentare una ricerca meno passiva, approfittando dei consueti intervalli accademici, fra un corso e l’altro, per cercare un contatto diretto con un insegnante e, in tal senso, tentare di risolvere la questione alla radice, domandando esplicitamente informazioni nel merito del tempo del sogno senza troppi giri di parole o troppi sotterfugi. Ciò non di meno, a frenare il mio agire, avrebbe avuto a dover essere giudicato un certo timore di poter, in tal maniera, esporre la mia presenza in quel luogo, e in quel luogo ove, a conti fatti, non avrei avuto a dover essere riconosciuta qual nulla di più di un’intrusa, un’intrufolata, priva d’ogni qual genere di credito utile a essere, altresì, lì presente, ad assistere a quelle lezioni o, peggio ancora, a interrogare i docenti nel merito delle mie curiosità personali. Certo: alla fine, al confronto diretto, sarei necessariamente giunta, nel momento in cui avessi individuato il professore giusto e nel momento in cui, a meno di non voler ritornare a casa senza alcun risultato, mi fossi ritrovata a dovergli esprimere le mie domande, i miei quesiti, le mie curiosità. Ma, fino al momento in cui non fossi stata effettivamente certa di ritrovarmi a confronto con il professore giusto, avrei continuato a preferire un approccio più discreto, e un approccio che pur, in verità, non avrebbe neppure avuto a doversi fraintendere qual necessariamente errato, nell’avermi allora concesso, in solo tre giorni, di riuscire a maturare una certa confidenza con quell’ambiente, e con una buona parte delle sue regole e convenzioni, scritte e non scritte.
Di conseguenza, forse prevedibile, quasi ineluttabile, anche il mio secondo giorno in università ebbe a trascorrere in modi non poi così dissimili dal primo, senza condurmi a nulla di fatto e vedendomi, immancabilmente, peregrinare di aula in aula sino al momento in cui, la mia ultima tappa, non avrebbe potuto ovviare a essere il pub, e quel pub dove, con il sorriso proprio di chi consapevole di essersi appena conquistato una nuova cliente abituale, il mio interlocutore della sera precedente ebbe lì ad accogliermi, ovviamente storpiando ancora una volta la pronuncia del mio nome…

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