11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 15 giugno 2019

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In silenzio, questa volta, egli accettò di ascoltarmi. E accettò di farlo senza compromessi, senza esitazioni, senza mezze misure, concedendomi, in tal senso, tutta la sua attenzione e tutto il suo interesse, in termini che, speranzosamente, non avrebbero avuto a dover essere fraintesi qual animati da faziosità o pregiudizio e che, per tale ragione, mi vide impegnata a esprimermi a ruota libera, senza riservarmi alcun genere di freno o di inibizione, condividendo con lui non una qualche versione censurata dei fatti, quanto e piuttosto la più sincera e trasparente verità… o, quanto meno, ciò che dal mio personalissimo punto di vista avrebbe avuto a doversi intendere qual tale.
Dal canto mio, quindi, tutto ciò non poté che risultare addirittura liberatorio. E liberatorio nella misura in cui, sino a quel momento, sino a quel giorno, non avevo potuto fare parola di nulla di quanto occorso nella mia vita in quegli ultimi anni con alcuno, se non con mio padre, testimone e, in parte, protagonista mio pari di parte della vicenda, ritrovandomi costretta a un silenzio tale da far percepire, psicologicamente, tutto quello quasi come qualcosa di sbagliato, qualcosa di cui avere a doversi vergognare, qualcosa da nascondere, benché, all’atto pratico, nulla avessi mai compiuto di sbagliato in tutto ciò. Avere, quindi e finalmente, l’opportunità di parlarne, e di parlarne apertamente, e di parlarne con un perfetto estraneo, qual, dopotutto, il professor Henry Thomas avrebbe avuto a doversi giudicare a confronto con la mia vita e la mia quotidianità, non poté che risultare semplicemente e addirittura liberatorio. Quasi come se, finalmente, mi fosse stata concessa nuovamente l’opportunità di muovermi dopo essere stata a lungo incatenata a un muro… o quasi mi fosse stata concessa nuovamente l’opportunità di camminare dopo esser stata a lungo bloccata su una sedia a rotelle, in una metafora tutt’altro che casuale.
Sì. Dopo aver trascorso troppi anni della mia esistenza a non poter vivere completamente la mia stessa quotidianità, il ritrovarmi a dover porre freni di sorta alla medesima non avrebbe avuto a doversi riconoscere per me qual positivo… né, tantomeno, di auspicabile. Ed essere così nuovamente libera di parlare, e di parlare a ruota libera, non avrebbe potuto che risultare per me qual tornare a inspirare aria a pieni polmoni dopo un lungo, lunghissimo periodo di apnea.

« E quando riaprii gli occhi, ritrovandomi nella mia stanza, non potei ovviare a ritenere, in un primo momento, quanto tutto quello altro non fosse stato che un sogno: un sogno strano, un sogno complicato, un sogno assurdo, e pur sempre e soltanto un sogno. Se nonché, innanzi al mio sguardo, e al mio sguardo allor impegnato a ritrovare contatto con la realtà, e con la realtà propria della mia camera, non ebbe a incontrare quanto lì rimaneva della mia sedia a rotelle, la sera prima lasciata quietamente accanto al mio letto e, in quel momento, ridotta a un intreccio distorto di metallo quasi informe, quasi irriconoscibile, per così come solo avrebbe potuto essere se solo fosse stata travolta da un autotreno o se solo, e piuttosto, le fosse crollata addosso un’enorme pietra vulcanica, qual quelle proprie della piramide nera. » conclusi, giungendo in tal maniera all’ultimo, e più sconvolgente capitolo, del mio racconto « Uno spettacolo tanto sorprendente, quanto spaventoso, a confronto con il quale, in maniera istintiva, ebbi a compiere un balzo all’indietro, e a compiere un balzo utile a spingermi al lato opposto del mio letto, con occhi fuori dalle orbite, respiro bloccato in gola e, soprattutto, eretta sulle mie due gambe… sue queste due, nuove e meravigliose gambe, così diverse, così estranee a quelle che pur, per quasi tutta la mia vita, mi hanno accompagnata. »

Se anche, allora, le mie parole avrebbero avuto a doversi riconoscere folli nel confronto con il giudizio del mio interlocutore, quantomeno la mia narrazione non avrebbe avuto, probabilmente, a doversi fraintendere sì spiacevole alla sua attenzione, non ove, quantomeno, il suo sguardo si poneva completamente catturato dalla mia prosa, in termini tali sicuramente da compiacere la mia vanità femminile, ma, anche, da farmi sperare per il meglio, e da farmi sperare per il meglio nel merito dell’esito finale di tanto impegno da parte mia, un esito finale che, allor, avrebbe potuto condurre a una semplice e grassa risata o che, piuttosto, avrebbe potuto ritrovare il mio interlocutore finalmente convinto nel merito della mia posizione e, magari, anche e persino desideroso di aiutarmi.
In ciò, quando, dopo quelle ultime parole, ebbi alfine a tacere, maturando solo allor consapevolezza di essermi dilungata per quasi mezz’ora, con buona pace delle persone in attesa là fuori, il professore non ebbe immediatamente a reagire. Al contrario egli restò per un lungo, lunghissimo istante in silenzio, forse neppur rendendosi conto di quanto, effettivamente, avessi allor concluso la mia narrazione, e in ciò, ancor, tacendo nel ritenere potessi avere altro da aggiungere.
Ma quello era tutto… e, forse, era persino troppo. In misura tale per cui, allora, avrebbe avuto a dover essere intesa qual sua l’occasione di prendere voce, e di prenderla, alfine, in un giudizio di merito a riguardo di quanto appena ascoltato, e di quanto, in ciò, avrebbe potuto accettare o, piuttosto, rifiutare, ma che, certamente, non avrebbe potuto ignorare. Non più. Non allora. Non dopo avermi ascoltata così a lungo, e con cotale assoluto interesse.

« Io… » esitò ancora, muovendo appena le labbra senza, tuttavia, riuscire a scandire una singola parola, probabilmente in conseguenza alla difficoltà per lui lì presente, in quel frangente, di articolare entro i confini della sua mente un pensiero di senso compiuto utile a condividersi « … questa storia… » cambiò soggetto, riformulando la frase precedente, evidentemente già scemata a confronto con la sua attenzione « … questa storia è così assurda che… oh, mamma… come dire?! Fosse inventata meriterebbe probabilmente di essere adattata in una serie televisiva di Netflix. »
« … » non riuscii a commentare, nel timore di aver appena sprecato un’ulteriore mezz’ora della mia vita a renderlo partecipe di quanto, dal suo punto di vista, altro non avrebbe avuto a dover essere inteso se non qual un’interessante spunto per una qualche serie d’avventura.
« Tuttavia… fosse inventata, ciò avrebbe necessariamente a sottintendere anche un pericoloso squilibrio mentale da parte tua... posso darti del tu, vero?!... » domandò, evidentemente in quel momento impossibilitato a mantenere ancora un qualche formale distacco fra noi, in quello che, forse, avrebbe avuto a dover essere inteso qual un segno positivo ancor più di ogni altra parola da lui pronunciata sino a quel momento « Cioè… nessun attore, per quanto bravo, sarebbe in grado di recitare un simile monologo con lo stesso evidente e sincero trasporto emotivo che ti ha contraddistinta nel corso di questa narrazione. Ergo, che tutto questo sia reale o no, certamente ha da intendersi qual vero per te, dal tuo personale punto di vista… »
« … » mi censurai nuovamente, nel timore di aver appena sprecato un’ulteriore mezz’ora della mia vita a renderlo partecipe di quanto, dal suo punto di vista, altro non avrebbe avuto a dover essere inteso se non qual la quieta dimostrazione di uno disturbo schizofrenico da parte mia, tale da potermi portare a un immediato internamento nel più vicino ospedale psichiatrico, avvolta in un bianco camice dalle lunghe maniche e chiusa in una stanza altrettanto bianca con comode pareti imbottite.
« … ma, a costo di rischiare di apparire a mia volta fuori di testa… io non credo che tu sia pazza. » soggiunse, scuotendo il capo e, in tal senso, dimostrando sufficiente attenzione ad anticipare la mia ovvia conclusione, e quell’ovvia conclusione in conseguenza alla quale, allora, quel discorso non avrebbe potuto terminare bene per alcuno dei due « E se tu non sei pazza, e non stai mentendo… ineluttabile credo abbia a doversi considerare la conclusione suggerita da Arthur Conan Doyle. »
« “Una volta eliminato l'impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità.” » citai a memoria, una delle più celebri frasi di Sherlock Holmes, e una frase che, in quel mentre, declinata nel confronto del professore con la mia narrazione, non avrebbe potuto ovviare a condurre a un’unica conclusione da parte sua.
« Tu hai viaggiato realmente nel tempo del sogno! » annuì egli, esplicitando, in tal maniera, la parafrasi propria di quella citazione.

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