11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 11 maggio 2008

122


H
eska si ritrovò ad osservare triste una nuova alba sorgere dal continente: ogni giorno, similmente al precedente, il luminoso disco solare presentava i propri raggi ad oriente, là dove l’orizzonte si smarriva nel mostrare vaste distese pianeggianti, ricche di erba verde. Un vero e proprio mare, la prateria, che a levante circondava le alte e forti mura della città, perdendosi fin dove l’occhio poteva guardare: una distesa forse infinita, o così per lo meno appariva, in cui il vento creava onde non diverse da quelle del mare reale, muovendo in tempi ritmici e costanti la vegetazione con meravigliose e mai ripetute sfumature smeraldine. Sopra tale spettacolo della natura, i raggi chiari del sole si proponevano offrendol alla giovane un tenue senso di libertà, in un panorama non troppo diverso da quello di casa, della sua amata Konyso’M, almeno fino a quando lo sguardo non andava ad incontrare le bianche torri di Kirsnya, ricordandole la propria prigionia.
Quella notte era stata più inquieta del solito per lei, perché dopo aver tristemente assolto ai propri doveri, una sensazione nuova, non sperata ma al contempo forse temuta l’aveva colta di sorpresa: qualcosa, nel proprio cuore, nel proprio animo, le concedeva la certezza che Mab’Luk stesse muovendosi verso di lei, a cercare di raggiungerla, forse per poterla liberare. E se da un lato l’idea di poter rivedere il proprio amato, di poterlo nuovamente abbracciare, stringere a sé, nella consapevolezza di poter ancora avere un futuro insieme a lui diverso dal presente in cui era precipitata, la entusiasmava e le ridonava speranza e vita, da un lato totalmente contrapposto ella non poteva non essere terrorizzata dal pensiero di ciò che egli avrebbe potuto pensare, di ciò che egli avrebbe potuto provare nello scoprire la piega degli eventi da dopo la fuga il giorno delle loro nozze. Era certa dell’amore del proprio promesso sposo, ma non poteva evitare di guardare con realismo al presente e, tristemente, rendersi conto che in tale situazione egli avrebbe avuto tutte le giuste ragioni per provare ribrezzo di fronte ad ella non diversamente da quello che lei stessa sentiva verso di sé.
Ancora una volta la giovane si ritrovò così a contemplare con fascino l’abisso sotto di sé, nella finestra che priva di sbarre si offriva a lei, al di lei destino: sarebbe bastato veramente poco per porre fine a tutto quello, per uscire dall’orrore in cui si era ritrovata proprio malgrado, liberando nel contempo se stessa ed il proprio sposo dal disonore, dall’ignominia. Quei pensieri molte volte, negli ultimi giorni, avevano attraversato la di lei mente, puntuali ad ogni alba quando si ritrovava ad osservare il nuovo giorno iniziare, nella rassegnazione che nulla avrebbe potuto fare per rimediare a ciò che era avvenuto: ma, come in ogni altra occasione, anche in questa ella non riuscì a trovare il coraggio che avrebbe richiesto l’ultimo, liberatorio e conclusivo gesto per giungere all’epilogo di una vita distrutta. Non poteva evitare di odiarsi per la propria vigliaccheria, per la codardia che non le permetteva di salire su quel davanzale e lasciarsi ricadere oltre di esso, come in un conclusivo e meraviglioso volo di libertà: nel proprio cuore era certa che sua madre e sua sorella non avrebbero avuto tale debolezza, l’esitazione che ella provava e che, senza perdere un solo istante, si sarebbero slanciate nell’abisso, per aver la possibilità di decidere come morire laddove era loro negato il diritto di scegliere come vivere.

« Vehnea… » sussurrò con gli occhi colmi di lacrime, osservando il cielo sempre più rischiarato dalla nuova alba, nell’invocare la dea « Qual è stata la mia colpa? Qual è il dolo per cui è necessario farmi subire questo? »

Ma l’eterea infinità non le concesse risposta, sembrò ignorare nuovamente le di lei suppliche, mentre le bianche e sottili mani della donna graffiavano la pietra del davanzale, a volersi tirare in avanti, oltre quel bordo, a costringersi ad un gesto che la di lei paura le negava di compiere.

« Abbi pietà di me, signora dei cieli. » implorò, priva di voce « Permettimi di morire come una donna libera… permettimi di lasciare un ricordo onorevole nella memoria di chi mi ama. »

Parole forti, gemiti disperati, a cui Heska affidava tutta la propria anima, tutta la propria speranza: non poteva accettare che Mab’Luk, il suo amato compagno, appassionato amante e fedele complice giungesse a lei per trarla in salvo, per amarla ancora una volta, forse addirittura per sposarla. Perché sicuramente egli avrebbe voluto ciò. Nonostante tutto era certa non l’avrebbe mai potuta ripudiare e qualsiasi dubbio in senso opposto sarebbe stato ingiusto nei di lui confronti: egli l’amava, l’amava con tutto il proprio cuore, la propria mente, il proprio animo ed il proprio corpo e neppure la sciagura in cui lei era rimasta vittima e schiava avrebbe mai mutato simili sentimenti. Proprio tale certezza, la sicurezza nella quale egli non le avrebbe concesso di perderlo e non si sarebbe concesso di perderla, la straziava internamente, facendola sentire ancor più indegna del suo promesso sposo. Con quale coraggio, con quale sfacciataggine ella avrebbe potuto accettare l’abbraccio di egli dopo ciò che era accaduto? Se davvero ella lo amava come egli meritava che fosse, se era vero che ella desiderava solo il meglio per la di lui vita, avrebbe dovuto trovare il coraggio di affidarsi a quel finale ed estremo gesto, avrebbe dovuto trovare la forza di superare il piccolo ostacolo in pietra davanti a sé e librarsi nel vuoto, a dimostrare con il proprio epilogo che ella sarebbe stata pronta a morire per il proprio amore.

« Vigliacca. Codarda. » si insultò, colpendo con tutta la forza dei propri pugni il davanzale in pietra prima di accasciarsi sopra di esso, piangendo disperata.

Non ci era riuscita.
Aveva fallito un’altra volta nell’unico semplice atto d’amore che avrebbe potuto offrire in quel momento verso colui al quale si era promessa, verso l’unico sposo che ma avrebbe riconosciuto, verso il solo uomo del quale avrebbe mai accettato di essere sposa. Era stata debole, disonorando se stessa, il proprio amato e tutta la propria famiglia.
Il giorno della propria nascita, suo padre aveva forgiato per lei una meravigliosa spada, un’arma praticamente perfetta la cui lama, per anni, era risultata splendente in meravigliosi riflessi azzurri senza mai trovare sconfitta neppure nel tempo, mai mostrandosi invecchiata o, per lo meno, coperta di polvere. Laddove tutto nella bottega subiva gli effetti delle stagioni, quel feticcio che la rappresentava era sempre rimasto fiero ed altero, sublime e forte, inattaccabile. Ma per quanto suo padre avesse potuto sperare nel plasmare quella spada, forse desideroso di offrire un benaugurate saluto alla nascita della propria secondogenita, ella non si era dimostrata meritevole di un tale capolavoro d’artigianato: a differenza di quella lama, ella stava permettendo ai propri nemici di piegarla, di sottometterla, laddove avrebbe dovuto preferire spezzarsi.
Un richiamo alle di lei spalle la distolse da ogni pensiero: un suono che, quasi beffardo, infierì nel ricordarle di non essere riuscita a porre fine agli orrori di quella che non poteva essere definita, in fede, come esistenza. Lo sguardo, risollevandosi annebbiato a causa del pianto, indugiò ancora per un istante sull’abisso di fronte a lei, sulla lunga altezza della torre che le avrebbe potuto donare finalmente la pace tanto agonista, la quiete ormai perduta ma ancora desiderata. In un ultimo spasmo di rifiuto per la realtà, le mani si contrassero contro il bordo della finestra, tirandola con leggera prepotenza verso l’esterno, verso le verdi ed ondose distese d’erba che tanto le ricordavano il suo amato mare e la vita che aveva perduto. Ma il corpo non rispose all’incitazione delle mani, ai desideri del di lei animo e della di lei mente.
Ed ella si ritrasse, voltandosi ad osservare nuovamente e tristemente in viso il proprio destino, la propria amara esistenza.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Povera Heska!

:(

Le cose si mettono sempre peggio...

Anonimo ha detto...

Mai capito gli istinti suicida. Non ci posso fare niente.

Sean MacMalcom ha detto...

@Coubert: a volte mi sento un sadico bastardo nello scrivere ciò che scrivo! :(

@Palakin: credo che neanche chi li vive li possa comprendere realmente. :)